Io non fotografo ciò che vedo, ma ciò che sento.
 [Mario Giacomelli]
C’è chi usa la fotografia per documentare, chi per raccontare, e poi c’è chi, come Mario Giacomelli, l’ha usata per esistere. Per lui la macchina fotografica non era uno strumento tecnico, ma un’estensione del cuore e dell’inquietudine, un modo per mettere in ordine il caos delle emozioni.
Nato a Senigallia nel 1925, tipografo per necessità e artista per vocazione, Giacomelli si avvicina alla fotografia negli anni Cinquanta con una semplicità quasi disarmante: compra una vecchia macchina fotografica e comincia a scattare nei dintorni di casa. Ma fin da subito è chiaro che le sue immagini non sono semplici fotografie: sono visioni.
Bianco e nero spinto fino all’estremo, contrasti violenti, cieli bruciati, neri d’inchiostro, luci abbacinanti. Nessuna ricerca del bello convenzionale, nessun compromesso con la realtà “[…] La realtà non mi interessava, io volevo raccontare quello che avevo dentro”, affermava infatti il fotografo.
Giacomelli costruisce il suo mondo nella camera oscura, dove la stampa diventa una seconda creazione: graffia, annerisce, cancella, esalta. È lì che la foto diventa immagine interiore, e il negativo un campo di battaglia tra sentimento e materia.
Scanno
Basta guardare la serie “Scanno”, realizzata tra il 1957 e il 1959, per capire la forza del suo sguardo. Il paesino abruzzese sembra fuori dal tempo, le figure sono sagome nere su fondali abbacinanti, il bambino che cammina tra adulti vestiti di scuro è diventato una delle icone della fotografia mondiale. Ma non c’è nulla di casuale: Giacomelli ha lavorato i negativi fino a trasformare quelle scene quotidiane in visioni sospese, dove la vita appare come una danza antica e senza tempo.
Scanno
Ancora più potente è “Io non ho mani che mi accarezzino il volto”, realizzata tra il 1961 e il 1963 in un seminario religioso: qui i giovani seminaristi sono ripresi mentre giocano, corrono, si abbracciano, studiano, ma anche mentre sembrano aspettare qualcosa che non arriva mai. I loro gesti sono semplici, quasi infantili, ma in quelle immagini c’è una tensione drammatica e spirituale fortissima. Il titolo, tratto da una poesia di David Maria Turoldo, aggiunge un altro fondamentale elemento che amplifica l’intensità del suo lavoro.
Io non ho mani che mi accarezzino il volto
Io non ho mani che mi accarezzino il volto
Io non ho mani che mi accarezzino il volto
Una delle serie più toccanti e meno celebrate è quella realizzata nella casa di riposo: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, ispirata ai versi di Pavese. In queste foto Giacomelli entra in contatto con la vecchiaia, la solitudine, l’attesa della fine. Gli anziani ospiti appaiono fragili, a volte spaesati, ma mai ridicoli o pietosi. Il fotografo li guarda con una dolcezza che ha qualcosa di struggente. Sono corpi segnati, visi stanchi, mani abbandonate sulle ginocchia, eppure in ogni scatto c’è una dignità profonda, una tenerezza che commuove.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Con “Presa di coscienza sulla natura”, invece, ci porta a volare: scatta dall’alto i campi coltivati delle sue campagne e li trasforma in calligrafie astratte. Le zolle arate diventano segni grafici, i confini tra le parcelle sono come pennellate su una tela. Anche qui la realtà viene piegata, trasfigurata, fino a diventare una visione. La natura è viva, mutevole, e l’uomo la modella lasciando impronte che sembrano lettere di un alfabeto segreto.
Presa di coscienza sulla natura
Presa di coscienza sulla natura
Presa di coscienza sulla natura
In ogni sua serie, Giacomelli ha saputo raccontare qualcosa di più del visibile: ha dato forma al tempo, ha catturato la fragilità dell’uomo, ha trasformato la fotografia in vera e propria poesia visiva.
Non seguiva mode, non cercava approvazioni. Usava pellicole scadute, materiali poveri, stampava da solo le sue immagini, spesso in modo irregolare. Per lui ogni stampa era unica, come ogni emozione.
A chi gli chiedeva perché non fotografasse “meglio”, rispondeva che non cercava la perfezione, ma l’urgenza. Oggi, in un’epoca dove tutto è nitido, curato, patinato, le sue immagini sporche, bruciate, vibranti di umanità sono più vive che mai.
Giacomelli non voleva mostrare il mondo com’è, ma come si sente dentro. E forse è proprio per questo che, ancora oggi, guardare le sue foto fa tremare il cuore e sorridere gli occhi.
Se dopo questo articolo vi è venuta voglia di conoscere di più sulla figura di Mario Giacomelli, il suo percorso artistico e il significato più profondo delle sue immagini, esistono diversi libri che aiutano a entrare nel suo mondo visivo ed emotivo. Ve ne citiamo alcuni da aggiungere nella vostra libreria:
  • Mario Giacomelli. Fotografie (a cura di Alistair Crawford, Contrasto) – Un volume essenziale che raccoglie molte delle sue immagini più celebri, accompagnate da testi critici. È una sorta di antologia visiva che permette di attraversare tutta la sua carriera.
  • Mario Giacomelli. La figura nera aspetta il bianco (a cura di Katiuscia Biondi, Silvana Editoriale) – Questo libro, curato dall’Archivio Giacomelli, offre un’analisi approfondita delle sue opere, con attenzione particolare alla poetica e alle scelte estetiche dell’autore.
  • Mario Giacomelli. L’infinito istante (a cura di Simona Guerra, Bruno Mondadori) – Un saggio critico che esplora l’identità complessa di Giacomelli come fotografo e poeta dell’immagine, con numerosi riferimenti alle sue lettere, riflessioni personali e influenze letterarie.
  • Mario Giacomelli. La mia vita intera (a cura di Alessandra Mauro, Contrasto) – Un libro che si distingue per l’intimità del racconto: raccoglie pensieri, scritti, poesie e interviste del fotografo, accompagnati da una selezione di scatti particolarmente rappresentativi. È forse il testo più vicino alla sua visione umana e artistica.
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