
Tutti abbiamo delle ossessioni, delle ansie, delle fobie. Io semplicemente le metto in scena.
[Sarah Hobbs]
Nel nostro viaggio di Maggio dedicato al tema delle ossessioni, incontriamo una voce unica nel panorama dell’arte contemporanea: Sarah Hobbs, fotografa e artista americana nata nel 1970 a Columbus, Georgia, oggi attiva ad Atlanta.
Fin dai suoi esordi, Hobbs ha scelto di esplorare il lato invisibile della mente umana, trasformando in immagini evocative ciò che spesso resta nascosto dentro ognuno di noi: insicurezze, paure, fobie quotidiane, pensieri ripetitivi.
Il suo lavoro è profondamente legato agli ambienti domestici, spazi familiari in cui l’artista inscena scenografie meticolose, ricostruite con una precisione quasi maniacale. Non ci sono persone nelle sue fotografie, eppure l’elemento umano è evidente: ogni stanza sembra appena lasciata da qualcuno, o forse abitata da una presenza invisibile ma rumorosa, come può esserlo un’ossessione.
Nella serie più iconica, Small Problems in Living, Hobbs dà forma visiva a diverse problematiche psicologiche e comportamenti compulsivi.

In Untitled (Indecisiveness), decine e decine di campioni di vernice sono sparsi e appesi a una parete come se fossero stati osservati per ore, senza riuscire a scegliere. I colori si sovrappongono, si accavallano, confondono l’occhio: è la rappresentazione perfetta dell’ansia da decisione, quella che immobilizza anche nelle scelte più banali, trasformando un piccolo gesto quotidiano in un labirinto mentale.

In Untitled (Perfectionist), la fotografa immortala una stanza quasi completamente invasa da un’enorme quantità di fogli di carta accartocciati. Sullo sfondo, vicino a una finestra luminosa, c’è una scrivania con una pila ordinata di fogli bianchi e una sedia vuota. La stanza è ordinata, ma soffocata dalla marea di fogli scartati. Quei fogli accartocciati sono il simbolo tangibile dell’insoddisfazione, del fallimento percepito, del bisogno estremo di “fare tutto perfettamente”. Ogni foglio rappresenta un tentativo fallito, una versione non all’altezza, uno scarto prodotto da una mente che non si accontenta mai. La figura umana è assente, ma la sua presenza si sente fortemente: l’autrice mette in scena la mente del perfezionista, intrappolata nel suo stesso bisogno di controllo e successo.

In Untitled (Sensitivity), una sedia è circondata da centinaia di uova crude, disposte una accanto all’altra in equilibrio precario. Un solo passo falso, e tutto andrebbe in frantumi. L’uovo diventa metafora della vulnerabilità emotiva, della difficoltà di comunicare senza ferirsi o essere feriti, della paura costante di “rompere qualcosa”.

In Untitled (Claustrophobia), l’osservatore è subito colpito per il suo silenzio carico di tensione. Una stanza normale, ma avvolta da una rete sottile che cade dal soffitto fino al pavimento, imprigionando ogni cosa – anche un telefono, simbolo di contatto e libertà.
È un’immagine che parla di paura, ansia, del sentirsi bloccati anche in spazi aperti. La rete è la claustrofobia: invisibile agli altri, ma soffocante per chi la vive. Non servono muri per sentirsi chiusi.
